Capitolo 7 La fabbrica

Cinque anni prima

Autunno 2016

Solo noi industriali dell’acciaio lo conosciamo, quell’odore che finisce per impregnare tutti i muri. Sono scaglie oleose di ossido di ferro, che si mescolano all’aria della canicola estiva, ai gelidi spifferi invernali, alle tute sudate, ai guanti consumati, ai capelli unti, ai colpi della pressa.

Puoi sciacquare abbondantemente, lavare e riverniciare, ma è tutto inutile.

 

L’odore ti segue attraverso l’atrio, risale le scale e ti raggiunge persino in ufficio. Ti accoglie nei magazzini, nei reparti, nei laboratori.

Se anche non te ne curi e cerchi d’ignorarlo, quando meno te l’aspetti, lui ti ritrova.

 

È l’odore stesso del lavoro, qui nel metalmeccanico.

È la fabbrica che ti alita addosso i suoi umori.

 

Bordione decapato, vergella calcinata, bobine di trafilato saponato. Tondo, quadro e semi quadro. Grezzo, cotto, crudo, dolce, lucido, fosfatato, ramato, zincato, nichelato, ottonato e verniciato. Zapponato. Ricotto, bonificato, temprato, cementato, non trattato.

 

La fabbrica consuma chilometri di tondino, tonnellate d’acciaio e vomita migliaia di prodotti in giro per tutto il mondo. Da quasi un secolo ormai.

 

Ma questo meccanismo, un tempo ben oliato e potente, oggi mi appare logoro, con gli ingranaggi sdentati, il lubrificante seccato. La fabbrica sembra irrimediabilmente invecchiata. La totale mancanza di risorse si manifesta in un malessere diffuso che prende sia le macchine che gli operai.

 

I macchinari, quelli rimasti, sono mal tenuti. Colpa di una politica di manutenzioni rimandate e riparazioni temporanee che finiscono per diventare definitive a causa della cronica mancanza di ricambi.

 

Ci si abitua a lavorare così, sopravvivendo con poco.

Gli uomini perdono la loro motivazione assistendo a questo progressivo deterioramento e ne patiscono il tracollo mentre si diffonde il malumore. Si creano isole di chiacchiericcio, soste spontanee improduttive. Gruppi di protesta. Anarchia.

 

Dati alla mano, verifico che anche gli uomini sono invecchiati insieme alla fabbrica.

Una cieca politica di non avvicendamento ha mantenuto ferme molte posizioni, anche quelle da cambiare.

 

L’età media è sopra i cinquanta e i più appaiono interessati alla pensione, non certo alla continuità.

Di contro, a me sembra giusto finire bene ciò che è cominciato decine di anni fa.

 

Dovremo cambiare molte cose qui. Schiarendomi la voce, cerco di spiegare la situazione a tutti i convenuti, una quarantina in cerchio intorno a me, nello spazio ricavato tra i macchinari e i cassoni delle merci.

 

È in corso l’ennesima riunione indetta dai sindacati per chiarimenti sull’andamento aziendale.

Ultimamente è una continua interruzione, tanto è il bisogno di restare aggiornati sulla dinamica degli eventi e seguire l’avanzamento della procedura concorsuale.

 

Dovete avere fiducia. Sto lavorando per rimettere a posto le cose e i conti cominciano a darci ragione. Il Piano è in corso e finalmente iniziamo a vederne i primi frutti.

La platea è divisa tra i più, scettici e pessimisti, e una sparuta minoranza disposta a credermi.

 

A ogni modo sento addosso gli occhi di tutti e mi pare che ascoltino quello che ho da dire.

Questa non è una di quelle riunioni in cui la gente passa il tempo distratta. La mia voce risuona forte e chiara nel reparto silenzioso.

Prendo fiato, tra una parola e l’altra del discorso, mentre respiro un’aria viziata.

 

Le scaglie d’ossido di ferro si sono mescolate con un gusto dal sapore cattivo: la mancanza di fiducia, che mi lascia la bocca amara e asciutta.

L’odore delle scaglie per una volta mi nausea.

Mi faccio coraggio, il coraggio di chi è convinto di quello che sta facendo.

Questo sito è registrato su wpml.org come sito di sviluppo. Passa a un sito di produzione con la chiave remove this banner.