Capitolo 1 Infarto
Un giorno del 2020
Venerdì mattina
Basta caffè riscaldato. 8
Sento l’agitazione crescere in me assieme a un sordido malessere che mi prende la bocca dello stomaco. Salgo e scendo le scale ripetutamente, cercando invano un posto adatto per calmare la costrizione allo sterno. Esco sul terrazzo. Vorrei fumare, ma non è il caso. Rientro e scendo di nuovo in cucina, ma non passa. Comincia a prendermi il panico.
Incrocio Vera.
Cos’hai? Mal di stomaco, forte. Un dolore al petto continuo e crescente, sto molto male.
Sarà l’esofagite che mi hanno diagnosticato la scorsa settimana. Lei mi scruta, scuote la testa e chiama il centododici.
Mi oppongo, ma il dolore mi toglie il fiato e il respiro. La mia protesta, appena accennata, perde intensità.
Aspetta, vedrai che passa, riesco a sussurrare a malapena. Sono chino a lato del letto mentre il dolore si espande, raggiungendo anche la mascella.
Tre infermieri si affannano sul mio petto nudo. Ce l’ha un rasoio? Sono vestiti in arancione e giallo, con le mascherine. Mi fa strano vedere uno di loro, un ragazzo alto e bruno, sul mio materasso con gli anfibi. Lacrimo.
Mi parli, Riccardo. Il tono è deciso ma gentile. Riccardo, mi risponda, grazie.
Una selva di cavi, elettrodi, cerotti, si dipana sul mio corpo. Mi avvolgono con una coperta argento e oro. Con cautela scendono le scale reggendo la barella. Attento, girati. Occhio al gradino.
È venerdì. Sono rientrato in auto dopo due giorni di viaggio all’estero. Una fortuna che l’infarto mi abbia colto a casa.
Mi sedano con la morfina e il dolore si attenua leggermente. Sono lucido e presente. Tremo per il freddo e per la paura.
La sirena squarcia l’aria per tutto il tragitto mentre l’infermiera comunica con il reparto di cardiologia. Sono atteso.
Il telefono mi cade di mano. In tempo di Covid è l’unico ponte con la mia famiglia. Tranquillo, lo mettiamo qui vicino, non si preoccupi. Ma io penso a Walter e ai WhatsApp che gli avevo inviato senza ricevere risposta.
Arrivo all’ospedale in codice rosso. In pronto soccorso mi fanno saltare l’accettazione. Un giovane dottore mi visita immediatamente e mi fa un’ecografia al volo. Si giri sul fianco, grazie. L’elettrocardiogramma non è molto chiaro. La mando subito in angiografia per una verifica.
Mi spostano dalla barella al lettino di un macchinario, sollevandomi come nei film. Entrambe le braccia sono pronte. La dottoressa mi spiega: vediamo se risalire dal polso o dall’inguine. Non si deve muovere. Nonostante il disagio, sono curioso e non stacco gli occhi dallo schermo diagnostico.
Un pannello separa la postazione del medico dalla mia barella. L’arto destro è immobilizzato. In alto a sinistra un ampio monitor inquadra le mie coronarie. Non sento il braccio, ma vedo la bobinatrice srotolare la sonda già dentro la mia arteria. L’operazione è in anestesia locale. Mi sembra di percepire l’attrito del cavetto che si muove avanti e indietro.
Il sibilo della macchina viene interrotto dal vociare del medico che opera nella sala monitor a fianco. Bene così, avanti piano, fermo. Discutono sul calibro e sulla marca dello stent. Per un attimo il dolore ritorna violento.
Protesto con la dottoressa.
Ora passa. Stiamo deformando, sono diciotto atmosfere. Deformiamo l’arteria per ripristinare il passaggio occluso al novantacinque percento, mi spiega. Resista e non si muova. Il tono è perentorio. Una lacrima scivola lungo la mia guancia.
Le arterie da trattare sono due, ma oggi facciamo quella sinistra circonflessa, la causa dell’attacco. Ce n’è una terza ma vedremo. Bene così. La bobina gira ed emette strani gemiti.
Il magazzino delle sonde a palloncino è sorprendente. Mi ritrovo a contare le belle confezioni colorate. Chissà a quanto ammontano. Il valore delle merci a magazzino è una delle mie ossessioni.
All’uscita incrocio il medico della sala monitor. Tutto ok. Opereremo di nuovo questo mercoledì per l’angioplastica. Abbiamo un’altra coronaria da fare. La terza, probabilmente, si risolverà con i farmaci, mi spiega.
Quando mi portano in rianimazione, sono spossato.
Mi hanno stretto la fasciatura così forte che mi fa male tutto il polso. Chissà perché sono saliti dal braccio destro, più lontano dal cuore. Controllerò appena posso, mi riprometto. La fascia elastica beige comprime la ferita d’ingresso della sonda, favorendo il coagulo. L’ago sopra di essa mi ostacola nei movimenti.
In sala rianimazione è il cambio turno. Ringrazio tutto il personale: gli otto camici azzurri del primo turno accorsi a salutare, per lo più infermiere, e quelli del secondo, entrati per conoscere il nuovo arrivato.
Tutte queste persone sono per me? Come è possibile? Mi sono abituato a sentirmi disprezzare e tanta attenzione nei miei riguardi mi sembra irreale.
Piango copiosamente e una ragazza carina mi asciuga il viso. Peccato non ricordi più il suo nome.
Adesso basta, Riccardo, volerti male. Basta odiarti. Dio, che stupido sei stato, come hai potuto giocare con questo Armageddon? E se restassi così?
Solo ora capisci quanto sei attaccato alla vita. Puoi separarti da tutto e da tutti, ma non ti separerai mai dai danni che ti sei inflitto da solo.
In silenzio, nel ticchettio dei monitor, urlo muto tutta la mia disperazione. Sono ferito, per davvero stavolta.
Ferito al cuore.